Accertamento tributario, il ricarico non può essere effettuato solo su un campione di merce.

Secondo la Cassazione servono conteggi coerenti con il tipo di beni venduti.

A precisarlo è la Corte di cassazione con la sentenza n. 9901/2020, depositata ieri.

Se il contribuente contesta il ricarico effettuato dai verificatori, il giudice deve controllare la fondatezza ed attendibilità dei calcoli rispetto all’attività di impresa. A tal fine diventa fondamentale conoscere il numero di campioni utilizzato sulla totalità degli acquisti dai verificatori per la determinazione di tale ricarico.

L’agenzia delle Entrate notificava a una società un avviso di accertamento con il quale venivano recuperati ricavi non dichiarati. In particolare, erano stati determinati applicando alla totalità degli acquisti la percentuale di ricarico annotata a matita su alcune fatture, rinvenute dai verificatori.

Il provvedimento veniva impugnato davanti al giudice tributario, il quale, con riferimento ai ricavi, confermava la pretesa in entrambi i gradi di merito.

La contribuente ricorreva così in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, l’errore della Commissione tributaria regionale per aver trascurato che l’annotazione a matita di tale ricarico era in realtà stata riscontrata solo su un campione limitato di fatture di acquisto.

La Cassazione ha ritenuto fondata la doglianza.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto evidenziato che il riscontro di incongrue percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce, sia in tema di imposte dirette, sia per l’Iva, legittimo presupposto dell’accertamento induttivo. Occorre, tuttavia, che la determinazione di tale ricarico sia coerente con la natura e le caratteristiche dei beni venduti.

Ne consegue così che, qualora il contribuente contesti in giudizio il criterio di determinazione, il giudice di merito è tenuto a verificare la scelta dell’Amministrazione in relazione alle critiche proposte.

Nella specie, la Commissione Tributaria Regionale non aveva riscontrato il numero esatto di fatture sulle quali risultava annotato il ricarico utilizzato. Se fosse riferito, infatti, solo a un numero limitato poteva non essere una prova sufficiente a sostenere la pretesa.

Così come rilevato dai giudici di legittimità, occorre conoscere la modalità di determinazione del campione, ossia se si tratti di un valore più o meno isolato ovvero rappresentativo della gestione.

Va peraltro rilevato che lo stesso principio si potrebbe applicare anche ad altre tipologie di accertamenti. Si pensi, per esempio, alle rettifiche ai fini dell’imposta di registro, per le quali spesso gli uffici

fondano il maggior valore attributo su atti comparativi presi a campione.

Risulta fondamentale conoscere il numero di atti considerati per tale confronto, atteso che potrebbero conseguire differenti conclusioni. Se, infatti, si trattasse di tre atti su tre similari registrati nel periodo considerato dall’Ufficio, significherebbe che la totalità delle compravendite di quel bene ha avuto un certo valore.

Diversamente, invece, se fossero solo tre atti su 50 totali registrati per simili beni, si tratterebbe di una percentuale talmente esigua e irrisoria che certamente non proverebbe la rettifica.

Ad ogni buon conto, per un simile controllo, è necessario che l’eccezione sia sollevata nel ricorso introduttivo.