L’articolo 2 del Dl 13 del 2022 ha inasprito la sanzione penale, prevedendo che qualora nelle asseverazioni rilasciate per fruire delle agevolazioni vengano esposte informazioni false anche in merito alla congruità delle spese, siano omesse informazioni rilevanti sui requisiti tecnici del progetto di intervento o sulla effettiva realizzazione dello stesso, il tecnico abilitato è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50mila a 100mila euro.
Esclusi dalla nuova normativa sono i commercialisti, abilitati a rilasciare i visti di conformità.
Però è bene tenere a mente che ai sensi dell'art. 3 del Dlgs 74 del 2000, in caso di falsa certificazione (cosiddetto visto leggero), i commercialisti potranno essere chiamati a rispondere a titolo di dichiarazione fraudolenta (punita da un anno e sei mesi a 6 anni) in quanto l’apposizione di un visto mendace, come riconosciuto recentemente dalla Cassazione con la sentenza n. 19672 del 2019, costituisce un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria.
Infine rischia l’accusa di falsa fatturazione (punita da 4 a 8 anni), disciplinata dall’articolo 8 del Dlgs 74/2000, il commercialista che comunica alla piattaforma dell’agenzia delle Entrate un credito d’imposta fittizio.
Tale ultima ipotesi è già stata contestata a professionisti finiti nelle maglie degli accertamenti di tre distinti procedimenti. Secondo l’impostazione formulata nella fase preliminare - che dunque attende un riscontro dalla legittimità - la trasmissione telematica all’Agenzia è da sanzionare con l’articolo 8 del Dlgs 74 del 2000. Il rischio di un coinvolgimento del professionista, anche se estraneo alla truffa in senso stretto, è concreto.
Nella ricostruzione investigativa consultabile nei documenti giudiziari, i professionisti «emettevano documenti aventi valore analogo alle fatture per operazioni inesistenti», rappresentati dai «modelli di comunicazione di cessione del credito trasmessi telematicamente all’agenzia delle Entrate attraverso la procedura web».
Stando all’impostazione accusatoria, dunque, esiste una «equivalenza del documento informatico, costituito dall’inserimento della transazione relativa alla cessione sul portale della “Piattaforma cessione crediti”», delle Entrate, «alla fattura per operazione inesistente». Nel dettaglio, continuano i magistrati, «la particolarità è costituita dalla natura informatica del documento, ma certamente risulta intuitiva l’equivalenza rispetto al tradizionale documento denominato “fattura” posto che l’inserimento nel portale costituisce traduzione informatica della sottostante negoziazione, laddove il bene ceduto è un credito di imposta, del tutto inesistente».